La giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne è un florilegio di iniziative volte ad accaparrarsi l’evento più sentito, la tragedia più sordida, la panchina più rossa di tutte.
Una vera e propria ondata di redwashing, quando è la storia della sorella che ancora si deve salvare a dover interessarci, insieme alla sensibilizzazione di quante più persone possibile, e tra esse, soprattutto gli uomini, i grandi assenti di questo percorso di risalita da un inferno che sembra senza fine.
Di uomini che parlano di donne è fatto il percorso “Donne, non formiche”, promosso da Zefiro APS, nell’ambito di “Futura. La Puglia per la parità”, promossa dal Consiglio Regionale della Puglia. Dopo Ipazia di Alessandria, raccontata da Pierluigi Catizone del Planetario di Bari, e Artemisia Gentileschi, raccontata da Giacomo Lanzilotta della Pinacoteca di Bari, è il turno di Eleonora Fonseca Pimentel, la prima donna che è possibile ascrivere tra le giornaliste, raccontata da Onofrio Pagone, storico cronista della Gazzetta del Mezzogiorno.
Come la rassegna ci ha ormai viziati a fare, l’anteprima dello spettacolo vero e proprio è presso l’Atelier Malta di Geris, il piccolo regno d’arte nella Repubblica Indipendente di Madonnella, dove Maria Pierno crea e espone le sue creazioni in Malta di Geris, un composto ecocompatibile di sua invenzione che dà effetti marmorei strabilianti. Maria fa magie con tutte le cose che le sue mani toccano: cibo, materia artistica, relazioni tra persone. Nel salotto di Maria, Onofrio Pagone declama la storia di Eleonora Fonseca Pimentel, nata Lenor De Fonseca Pimentel Chavez, giovane intellettuale di stirpe portoghese che visse prima a Roma e poi a Napoli. Accostatasi alle forze borghesi antiborboniche e illuministe, fondò il “Monitore Napolitano”, giornale dallo stile editoriale giacobino, il quale uscì per quattro mesi nel 1799, prima che la Pimentel venisse arrestata e infine condannata a morte per impiccagione, a Piazza Mercato, il 20 agosto di quell’anno. Una copia del Monitore è stata dipinta da Maria Pierno, e campeggia superba nel suo laboratorio.
Pimentel rappresenta il crocevia di varie ribellioni: quella a un marito rozzo e violento, da cui silentemente si separò; quella allo status di mente incolta, cui oppose una vivace attività di poetessa prima e di giornalista, dall’epistolario con Pietro Metastasio e Voltaire fino al più estremo dei gesti; quello di madre negata.
Tutte personalità che Nunzia Antonino, nel suo “Lenòr” con la regia di Carlo Bruni, mette in scena con uno stile, un coinvolgimento e un’identificazione esemplari, nella cornice immersiva del Castello di Bitritto, la sera successiva. Con un abito a grembiule che accarezza la sua figura sottile, Antonino inscena grembi materni, grandi prostrazioni esistenziali, riverenze non dovute e sparuti momenti di felicità. Una storia con così tanta stoffa risveglia la memoria della intellettuale da una damnatio che la narrazione borbonica da un lato, oggetto di numerosi revisionismi populisti anche nei tempi attualissimi, e un’autentica quanto disgustosa misoginia dall’altro hanno voluto ricacciare, soffocare e insabbiare nelle pieghe del tempo.
Però, Pimentel, morendo, ha lanciato un incantesimo, per lasciare che la riscoprissimo e ne diffondessimo le parole e le opere: una citazione dell’Eneide, “Forsan et haec olim meminisse iuvabit”, Forse un giorno gioverà ricordare queste cose. Neppure la sua tomba è più conosciuta, le coordinate per farne una leggenda in odore di santità laica ci sono tutti, e possa il nostro ricordo giovare e sanare almeno in parte le ferite del tempo.
Beatrice Zippo
Foto di Beatrice Zippo
e dal profilo Facebook di Vito Palmisani