Gli “Altri libertini” avevano capito tutto e Licia Lanera lo sa! Rivive il mondo di Pier Vittorio Tondelli e conquista il pubblico del Teatro Piccinni grazie alla splendida lettura della Compagnia barese

Alla fine degli Anni Ottanta, Raf si chiedeva e ci chiedeva cosa ne sarebbe restato. Riavvolgendo il nastro, gli Anni Ottanta sono un decennio che, visto dall’oggi, sembra contrapporsi con la sua devastante portata al Secolo Breve teorizzato da Hobsbawm, un decennio che in Italia era iniziato con la morte di Aldo Moro, e forse non è mai finito. Di recente, la cesura data da quell’avvenimento ci ha messi di fronte a cosa sarebbe stato se Aldo Moro non fosse morto. Da Buongiorno Notte di Bellocchio, a Ufo 78 di Wu Ming, soltanto adesso capiamo chi avremmo potuto, forse dovuto essere, se il cofano della due cavalli rossa avesse trovato Aldo Moro vivo, e un popolo pieno di speranze. All’epoca non ci fu tempo per pensare. Il 1980, l’anno in cui “Altri libertini” è nato e ambientato, non a caso, come cita la capocomica Licia Lanera, l’anno in cui Franco Basaglia morì e nacque Canale 5, incombeva.

Le oscenità dell’opera prima di Pier Vittorio Tondelli furono definite dalla vulgata come non adeguate e non necessarie. Parlare di eroina, di omosessualità, apertamente, era ancora più fantascientifico della fantascienza che si vedeva al cinema e nei romanzi. Nessuno voleva sapere che i buchi esistevano, che i ragazzi non sorridevano tutti come nella tv commerciale nascente, che vi erano storie, dietro le porte delle case squallide subaffittate agli studenti, che sembravano di una generazione perdente. In realtà, quella generazione aveva capito molte cose, aveva capito che la promessa di un’esistenza prospera e felice non si poteva comprare come un detersivo o come un pacco di merendine della pubblicità. Quella generazione, che adesso definiamo “Baby boomer”, aveva visto per prima i barlumi di uno sfacelo simile a quello dell’inizio del ventesimo secolo, uno sfacelo che avrebbe rivelato una nuova umanità. Qualcuna e qualcuno, di quel periodo, è uscito dal nastro trasportatore che faceva diventare uno scolaro un lavoratore e un genitore. Qualcuno non ce l’ha fatta, qualcun altro è tornato a fatica sul nastro, qualcuno infine ha capito che lo stigma di una sessualità queer era solo la punta di un iceberg di liberazione, lotta, mazzate e discriminazione. E il peggio, per la comunità gay più o meno consapevole di essere comunità, doveva ancora arrivare: l’AIDS, di cui lo stesso Tondelli morì nello stesso anno di Freddie Mercury, sarebbe stato identificato l’anno dopo.

Licia Lanera ne fa un adattamento la cui scrittura tira fuori tre degli episodi del romanzo, “Viaggio”, “Autobahn” e “Altri libertini” e ne intreccia le vicende. Sì, ok, molti registi l’hanno fatto, ma gli Anni Ottanta, i film di Carlo Verdone in cui le tre storie sono parallele ma hanno una coerenza meno volontaria, ma più naturale di Blob (nato nel 1989, a proposito), creano una storia che accentua gli equivoci e monta dei passaggi indimenticabili. Sul palco, insieme a Lanera, voce narrante dal metapresente, Danilo Giuva, Giandomenico Cupaiuolo (con una performance di svariate lunghezze fuori dall’ordinario) e Roberto Magnani, in una coproduzione con Teatro delle Albe.

La prima parte vede gli attori in mutande e canottiera, alle prese con un’estate emiliana la cui invincibilità sta nel caldo, più che nello spirito di Camus. Qui, le dipendenze dalle droghe, la povertà studentesca, le marchette e le relazioni equivoche sembrano vissute senza sensi di colpa, in quanto a vent’anni tutto può succedere e nulla può fare paura, anzi, la ribellione monoscatto come un giro sulla cyclette di scena viene cantata con orgoglio in “Sono un ribelle mamma” degli Skiantos. Nella seconda parte, compaiono cravatte e abiti borghesi, le conseguenze degli eccessi si fanno talora tragiche e irreparabili, le canzoni di Vasco Rossi hanno un significato che pare sibillino, ed è caduto un inverno che ha spento gli ardori e gli amori più o meno fatui di una generazione.

Quella generazione è stata l’ultima che ha pensato di aver diritto di cittadinanza per i propri sogni, a ogni costo, a costo di rubarli a chi li ha seguiti, e ai loro figli e nipoti che oggi li salutano insieme alle illusioni: “Ciao cinematografaro, ciao.”

Beatrice Zippo
Foto di Manuela Giusto

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