L’esecuzione in chiave concertistica dell’Orchestra e del Coro del Teatro Petruzzelli diretti da Wayne Marshall di “Wonderful town”, il capolavoro di Leonard Bernstein, regala alla Stagione della Fondazione una serata indimenticabile

Non mi interessa avere un’orchestra che suoni per quello che è. Voglio che suoni come il compositore. Dopo le esecuzioni che io chiamo buone (un’esperienza incredibile, come se componessi in quel momento), devono passare alcuni minuti prima che riesca a ricordare dove mi trovo, in quale sala o teatro, in quale Paese, o chi sono. Una sorta di estasi che corrisponde in tutto e per tutto alla perdita di coscienza. Devo ammettere che è un problema essere insieme direttore e compositore; non sembra mai di avere abbastanza energia per entrambe le cose. È come essere due uomini diversi chiusi nello stesso corpo: un uomo è il direttore e l’altro il compositore. È come essere un uomo doppio.” (Leonard Bernstein)

Ci sono momenti nella vita di un ensemble orchestrale che si elevano al di sopra di ogni attesa, che danno ad ogni musicista impegnato la esatta percezione che quell’attimo fuggente resterà innegabilmente indelebile e, con tutta probabilità, finanche irripetibile nella sua storia. Come avevamo debitamente e prontamente annunciato su queste stesse pagine telematiche, non vi era alcun dubbio che il quarto appuntamento della Stagione concertistica 2024 della Fondazione Teatro Petruzzelli, suggellando l’incontro dell’Orchestra e del Coro del Teatro con la sapiente bacchetta del direttore Wayne Marshall e, soprattutto, con il genio musicale del Maestro Leonard Bernstein e con la sua Opera “Wonderful town”, si stagliasse come un momento irrinunciabile per il popolo barese e non solo, un evento di categorico rilievo che illuminava di luce accecante l’ottimo cartellone approntato dalla Sovrintendenza di Massimo Biscardi.

Ebbene, lasciateci immediatamente dire che la performance non ha tradito le attese, rivelandosi assolutamente memorabile, una prova maiuscola nonostante le striscianti difficoltà, comprensibili solo ad orecchio più preparato, che serpeggiano nella pagina musicale affrontata.

Compositore dalla fama planetaria, direttore tra i più precisi e rigorosi, capace di far ripetere innumerevoli volte la medesima partitura pur di scoprirvi qualcosa di nuovo da infonderle e, nonostante questo, amatissimo da alcune tra le più celebri e stimate orchestre del mondo, tra cui la New York Philarmonic Orchestra, la stessa che, mezzo secolo prima, aveva visto sul podio il suo amato Gustav Mahler, l’unico in cui si riconoscesse, Bernstein ha legato il suo nome a Broadway e al musical, soprattutto grazie a tre imprescindibili capitoli, “On the town” del 1944, “West Side Story” del 1957, l’Opera che ha segnato per sempre la storia di un genere e della musica nella sua totalità, e, nel mezzo, proprio “Wonderful town”, incomprensibilmente da noi il meno conosciuto dei tre, forse perché raramente trova posto nei nostri teatri di tradizione, realizzato nel 1952 in sole quattro settimane su testo di Betty Comden e Adolph Green ispirato alla commedia “My sister Eileen” di Joseph Fields e Jerome Chodorov ed ai racconti di Ruth McKenney, in cui si narrano gli entusiasmi, le amicizie, gli amori, le illusioni e le delusioni delle sorelle Ruth ed Eileen Sherwood, giunte dall’Ohio al Greenwich Village di New York nei fantastici anni Trenta in cerca di fortuna.

Il musical fu un grande successo, tanto che a Broadway l’opera ebbe 559 repliche, anche se in realtà avrebbero dovuto essere 560: l’ultima replica dell’8 aprile 1953 fu annullata perché il “New York Daily News”, rendendo noto che il quotidiano di sinistra “National Guardian” aveva acquistato una grande quantità di biglietti per quella data, insinuò nella mente dei suoi lettori conservatori l’idea che quella storia di arrivismo sociale e di emancipazione femminile e razziale altro non fosse che una assai poco velata propaganda politica. Ma, diceva Bernstein, “un’opera d’arte non dà risposte alle domande, le suscita: il valore sta nella tensione delle risposte contraddittorie”; ecco, dunque, che l’incanto di “Wonderful town” ha vinto la sua battaglia sull’ottusità dei suoi detrattori.

Su di una cosa, però, i critici del tempo avevano ragione: la storia delle due germane, utilizzata soprattutto per inserirvi argutamente decine di giochi di parole, doppi sensi, rime ed assonanze che, spesso, sfuggono all’ascoltatore contemporaneo e – per di più – non americano, in fondo non è altro che un espediente impiegato per creare una riuscitissima caleidoscopica tavolozza di colori musicali, fatta di accenti e di lirismo, di modernità e di classicismo, di avvolgenti melodie, ritmi esotici e sincopi jazz, in cui si può innegabilmente rintracciare un’influenza gershwiniana, ma solo nel senso di una comparazione e mai di una derivazione, il tutto condito con il solito incomparabile istrionesco sincretismo compositivo che fu marchio di fabbrica del geniale musicista, di recente tornato in auge grazie a “Maestro”, l’ottimo biopic cinematografico scritto, prodotto (assieme a gente del calibro di Martin Scorsese e Steven Spielberg), diretto e interpretato da uno straordinario Bradley Cooper, assolutamente perfetto nei panni del compositore soprattutto nei passaggi dedicati all’impeto con cui dirigeva le sue orchestre, partecipando al rito con tutto il corpo, saltellando, agitandosi e perfino scendendo dal podio per poi subito ritornarvi, contegno che gli aveva fatto meritare il nomignolo di “leaping Lenny”.

Se, come il Maestro amava ripetere, “ogni grande lavoro artistico riaccende e riadatta il tempo e lo spazio, e la misura del suo successo è l’estensione per la quale si viene portati ad essere abitanti di quel mondo, l’estensione per la quale si viene invitati e si lascia che si respiri la sua strana, speciale aria”, allora non potremo mai essere abbastanza riconoscenti al direttore Wayne Marshall che continua a riaccendere e riadattare il tempo e lo spazio portando in giro per il mondo questa composizione in forma di concerto, indubbiamente tra le più affascinanti del repertorio bernsteiniano, un capolavoro assoluto che, grazie alle sue inedite trovate armoniche, riesce ad esprimere l’ipnotica e rapinosa suntuosità musicale del Maestro. L’operazione di Marshall ha validissimi complici nel magnifico cast impegnato, a partire dalle splendide Alysha Umphress e Lora Lee Gayer, rispettivamente Ruth ed Eileen Sherwood, per poi continuare con Ben Davis, Ian Virgo e Simon Bailey, i quali mostrano tutte le loro doti alle prese con brani di rara bellezza, ora sognanti ora trascinanti, come “Ohio”, “A little bit in love”, “One hundred easy ways”, “A quiet girl”, “It’s love” e, su tutti, la celeberrima “Conga!”.

Il merito della riuscita dell’operazione va certamente condivisa con la strabiliante prova dell’Orchestra e del Coro del Teatro Petruzzelli, quest’ultimo più che magistralmente preparato da Marco Medved, anch’egli felicemente danzante sul palco alla fine del concerto allorquando il nostro Politeama esplodeva in vere ovazioni, costringendo Marshall a concedere un bis che non avrebbe non potuto essere che la coinvolgente “Conga!”.

Fin dalle prime note della meravigliosa Ouverture, il pubblico del Petruzzelli è stato investito dalle splendide armonie, vivendo in prima persona il trionfo di una serata indimenticabile, con Orchestra e Coro che, pur apparendo, in barba ad ogni banale ed imbalsamante stereotipo, come dei novelli tarantolati, tutti presi da un incessante muoversi, saltare, battere le mani, danzare persino, si producevano in una performance davvero formidabile, più unica che rara, appassionata ma anche sorprendentemente lucida, approfondita, minuziosa, matura, per lo più addirittura perfetta, in assoluta simbiosi con la più che singolare spinta sonora ed emotiva determinata dal dettato del Direttore, capace di esaltare ogni dettaglio con precisione certosina, così da creare una esemplare elegia estetica dell’opera da cui emergevano distintamente tutte le sfumature emozionali, realizzando compiutamente e consapevolmente la mission bernsteiniana, votata ad una musica che sapesse “nominare l’innominabile e comunicare l’inconoscibile”.

Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla

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