“BiG Dreams” are made of this: il reportage del primo weekend del Bari International Gender Festival 2023

Il BiG crea in me sempre fame e attesa. Soprattutto, so di non essere sola in questo sentimento, poiché il suo pubblico è sempre e immancabilmente tanto, crescente, preso bene, multiforme: non è possibile infatti stilare un identikit di chi va al BiG, perché è il festival inclusivo per eccellenza.

Il BiG è la Bari che vorrei, una Bari libera da se stessa, e dal ruolo presto bisunto di sagra permanente su cui si sperticano i giornali, finalmente libera di essere quel che le pare, bella e vivace più che mai.

BiG sta per Bari International Gender Festival, festival transfemminista di cinema, performance, musica, danza e dialoghi ed è alla sua nona edizione, diretto da Miki Gorizia e Tita Tummillo, promosso e organizzato dalla Cooperativa sociale AL.I.C.E., sostenuto dal FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo), Regione Puglia, PACT Teatro Pubblico Pugliese a valere sul Fondo Speciale Cultura e Patrimonio Culturale L.R. 40/2016 art. 15 comma 3, Comune di Bari, Ufficio Tecnico – Tavolo Tecnico LGBTQI del Comune di Bari, Centro Antidiscriminazioni del Comune di Bari, Medihospes, Centro Antiviolenza – Assessorato al Welfare del Comune di Bari, Ambasciata Olandese e Pro Helvetia, in collaborazione con Fondazione H.E.A.R.T.H., Università degli Studi di Bari «Aldo Moro» – Dipartimento ForPsiCOm, Teatri Di Bari, Teatro Kismet e Fondazione Apulia Film Commission.

Il primo weekend di festival promette bene: si inizia col botto (un botto buono beninteso), con lo spettacolo di Ivo Dimchev, uno dei performer più forti della scena queer, e non solo, internazionale. Bulgaro di origine, Dimchev è un’overdose di sapori scenici, il cui effetto però non è di un soul food porn, come i post Instagram di cibo dove per badare alla stracciatella strabordante sul pistacchio si perde sia l’attenzione della stracciatella che quella del pistacchio: Ivo Dimchev è un’esperienza gourmet, in cui tutte le sensazioni sono ben riconoscibili. La partenza è quella, solidissima, di un vaudeville contemporaneo. A questo impianto culturale si collega una voce sbalorditiva, da soprano Falcon, capace di passare da colorature più calde ad acuti con un bisogno quasi nullo, sempre intenzionale, di falsetti.

Detta così, sembreremmo di fronte a un avanzo di conservatorio, e invece Dimchev ha un risultato che da Elvis spazia fino alla Palast Orchester, nelle canzoni e nel look, condendo gli intermezzi tra un pezzo e l’altro con una stand up comedy ironica e autoironica, in cui fa domande, anche e soprattutto scomode, al pubblico, veri e propri spunti di autoanalisi collettiva. Peraltro, confessandosi col pubblico, ha rivelato che ha scoperto di saper scrivere canzoni a 40 anni, e che canzoni: da “Slut” a “Pushkin”, da “Gays in the crowd” a “Vodka”. Facile ingannarsi con le basi pop che sembrano diffuse dal cellulare come se fosse un pianobar per caso in un teatro bellissimo come il Kursaal: la verità è che Dimchev stabilisce una connessione empatica molto forte, fino a far ballare tutto il teatro. Una vera e propria cometa, in orbita superveloce a Bari da e per New York in meno di un giorno.

Il sabato invece ha visto aprirsi le porte di un altro prezioso posto del centro di Bari, Palazzo Fizzarotti. Ancora risonanti dell’eterno spettacolo di Franko B dell’anno scorso, le stanze si sono riempite delle vibrazioni di uno spettacolo che, come il sogno nella cui dimensione si ubica, non ha una collocazione performativa precisa: vi è la danza, vi è il teatro, vi è la musica, la fotografia. “Dreams about dying”, di e con Marta Capaccioli e Lucrezia Palandri, alla sua première italiana. Le due performer, nel loro curriculum, hanno The Cleaner, la celebre retrospettiva di Palazzo Strozzi su Marina Abramovic. Reperti ammonticchiati e coperti dai drappi della memoria rivelano rituali funebri di epoche e luoghi vicini e lontani. Le personalità si confondono, i mondi de* viv* e de* mort* si uniscono, non è più chiaro dove sia il sonno e dove la veglia. Dopotutto, chi ci dice che quando dormiamo e sogniamo noi non siamo temporaneamente mort*? Abbiamo davvero bisogno di scomodare Cartesio per dubitare di trovarci dalla parte de* mort*, nella nostra veglia, mentre viviamo nel sogno? Chi tra noi non ha almeno un proprio ricordo che corrisponde a un sogno? Stiamo forse preparando la memoria di quando saremo mort*, o meglio, viv* in un metaverso onirico?

Capaccioli e Palandri provano a darci il conforto della domanda, più che una dose di risposta, ed è naturale sentirsi in un sogno dove risuona la voce di Dolores O’Riordan (non a caso, in lungo equilibrio tra qui e l’altrove, prima di svanire in quest’ultimo), mentre Capaccioli intona a cappella “No Need to Argue”, un invito a non crucciarsi dei fatti di questo mondo, perché l’altro sopraggiunge (“ché si muore”, una lezione che a Bari si declama da secoli, con più prosa).

Will I forget in time? Ah
You said I was on your mind?
There’s no need to argue
No need to argue anymore
There’s no need to argue anymore

La domenica ha previsto il primo degli appuntamenti domenicali con il cinema queer all’ABC. Il debutto è di quelli pressoché irripetibili: Paul B. Preciado, assoluta testa di serie della cultura transgender a livello planetario, ha di recente presentato alla Festa del Cinema di Roma dopo la nomination come miglior documentario alla Berlinale e il Teddy Award “Orlando, ma biographie politique”. Il film, dipanandosi dalla lettura e dalla rappresentazione di “Orlando” di Virginia Woolf, un testo che è la protostoria della letteratura transfemminista, narra le storie delle transizioni di 26 persone tra gli 8 e i 70 anni, esattamente come il testo racconta la transizione di Orlando.

Lo stile documentaristico assume presto i colori della dramedy, in cui la commedia non è mai vacua, e il dramma non lascia mai spazio all’autovittimizzazione. Lo stesso testo di Woolf mescola maschile e femminile, diciannovesimo secolo, storia elisabettiana e leggende crociate. A loro volta, i piani storici stabiliscono una matrioska ben chiara: le storie di transizione aprono a Paul B. Preciado, che apre all’identità in crisi di Virginia Woolf, che apre alla personalità di Elisabetta I, immaginabile come una condottiera non binaria ante litteram, il cui richiamo primario è espresso nei collari e nelle crinoline di tutti gli Orlando del film. Infine, il piano narrativo apre la quarta parete a chiunque possa immedesimarsi. Oltre all’estetica e alle musiche, pazzesche, il film rappresenta un punto di ingresso imprescindibile per chi vuole capire di più delle difficoltà che le persone trans incontrano ogni giorno: dalla burocrazia che emargina, alla medicina che considera malat*, a una politica ignorante per scelta, a standard espressivi eteronormati.

La serata è stata introdotta da uno dei due cori LGBTQIA+ cittadini, i Ricchitoni, che in onore ai moti di Stonewall hanno intonato “We Shall Overcome”.

Beatrice Zippo
Le foto di Ivo Dimchev e di Palandri/Capaccioli sono di Fabiano Lauciello

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.