Antonio Albanese realizza al Teatro Petruzzelli di Bari un convincente “Don Pasquale” in linea con la visione musicale e scenica del Maestro Gaetano Donizetti

Egli aveva da natura sortito in altissimo grado il dono dell’improvviso. Una penna, un brano di carta qualunque, e scriveva …. e quanto scriveva, suonava all’istante o cantava, fosse in campo aperto, al piè d’un monte, in piacevole brigata, fra l’assordante schiamazzo dei brindisi, dovunque facesse sosta, ovunque gliene saltasse il ticchio. Sempre nuovo ed immaginoso, ora gaio ed or triste, quando severo e sublime, quando tutta eleganza e tutto fiori, ci fa provare il vero incanto della musica, e una non avvi delle Opere sue, dalle più belle alle più leggere, dalle meno alle più fortunate, che non racchiuda un pezzo da potersi propriamente chiamare maraviglioso.” (Francesco Regli su Gaetano Donizetti)

Pare che il Maestro Gaetano Donizetti, giustamente appagato dalla celebrità che gli avevano regalato le sue opere più famose, tra cui non è possibile non citare “Anna Bolena”, “L’elisir d’amore”, “Lucia di Lammermoor” e “La figlia del reggimento”, decise di comporre il “Don Pasquale” in seguito alla scoperta casuale del vecchio libretto di Angelo Anelli, musicato da Stefano Pavesi nel 1810, “Ser Marcantonio”; così, lavorando su un libretto firmato da Michele Accursi ma in realtà scritto dallo stesso compositore con l’aiuto di Giovanni Ruffini, in soli undici giorni l’opera vide la luce, per poi essere rappresentata a Parigi il 3 gennaio 1843 e alla Scala di Milano il 17 aprile dello stesso anno.

Oggi quella creazione giunge a Bari, penultimo titolo della Stagione Lirica 2022 della Fondazione Teatro Petruzzelli prima de “La Traviata”, nella lettura di Antonio Albanese, star cinematografica, televisiva e teatrale, che ci ha regalato una versione che, a mio modesto parere, non sarebbe dispiaciuta al genio bergamasco, soprattutto per la naturale propensione ad una cura – assolutamente non comune – della recitazione non solo dei protagonisti, ma anche dei personaggi secondari e finanche delle comparse, in modo che, grazie alla espressività dei personaggi, la comprensione della storia risultasse, per una volta, più che chiara anche allo spettatore più sprovveduto.

La trama è nota, nella sua semplicità: Don Pasquale, per ripicca nei confronti del nipote Ernesto, rifiutatosi di accasarsi con una donna ricca, amando ricambiato la nullatenente Norina, chiede al suo fedele consigliere dottor Malatesta di procurargli, nonostante la sua non più tenera età, una giovane sposa che possa restargli accanto nella vecchiaia ed erediti le sue fortune, così da diseredare e scacciare con ignominia il nipote; ma Malatesta, che, in realtà, è fedelissimo amico di Ernesto e Norina, elabora un piano diabolico per far capitolare il vecchio brontolone; gli presenterà Norina spacciandola per Sofronia, sua sorella, e ne organizzerà immediatamente il matrimonio, ma con un finto notaio naturalmente all’insaputa di Pasquale; quando la giovane falsa sposina muterà il suo contegno, facendosi dispotica e tirannica, il vecchio maledirà la volontà di soddisfare le sue attempate voglie (“Ben è scemo di cervello chi s’ammoglia in vecchia età; va a cercar col campanello noie e doglie in quantità”, dirà nella disperazione) e, una volta svelato l’arcano, sarà ben felice di liberarsi della ‘coniuge’ accettando che la stessa sposi il ritrovato nipote.

Nel Don Pasquale c’è davvero tutto il mondo di Donizetti: il classico ed il moderno, l’opera buffa e la commedia borghese, il melodramma e la commedia musicale; ci sono ancora i recitativi, riconoscibili seppur ben celati, che quasi stridono con una costruzione musicale innovativa; c’è il romanticismo unito al realismo, la comicità alla commozione, il divertissement alla malinconia, ed anche l’amore in contrasto al puerilmente senile desiderio di possesso dell’altro sesso, ma il tutto presentato sempre in modo divertente, giocoso per l’appunto, con un’ironia che riesce a non trasformarsi mai in dileggio ed una leggerezza che non è mai inconsistenza. Albanese, rispettando appieno il volere del compositore, per questo allestimento scenico della Fondazione Arena di Verona trasporta la vicenda dall’Ottocento ad oggi e dalla originaria Roma alla nostra Puglia (gustosissimo il richiamo a Bari celato in una lettera), più precisamente in un’azienda vinicola (qualcosa alla Cellino San Marco per intenderci), escamotage che gli permette di riportare le movenze di alcuni dei suoi personaggi più famosi (impossibile non pensare al Sommelier o al mitico Epifanio) nei servi della casa, con esiti a dir poco esilaranti. Ben supportato dalle scene di Leila Fteita, i costumi di Elisabetta Gabbioneta e le luci di Paolo Mazzon, uniformemente ed ugualmente affascinanti nella loro essenzialità, il regista pare dotato di assoluta padronanza nel saper dosare gli ingredienti in suo possesso con ponderata misura, scegliendo di mettere in risalto, scevro da invasive esasperazioni grottesche – che pure ci saremmo potuti aspettare -, quel che i personaggi principali hanno in animo, soprattutto riguardo al protagonista, costruendo un ritratto sociale perfettamente credibile, se non addirittura familiare.

Così facendo, Albanese ha lasciato – in pratica un miracolo ai giorni nostri – che fosse la musica a vincere, ad esprimere tutta la sua carica emotivamente positiva, qualità che non ha tardato a manifestarsi grazie alla direzione di Renato Palumbo, ormai di casa nel nostro Politeama, che, ancora una volta, ha fatto volare ad altissima quota l’Orchestra del Petruzzelli, accentuandone le ormai inoppugnabili ottime doti con una lettura della pagina donizettiana che si dimostrava coinvolgente ed accattivante, caleidoscopicamente colorata e brillante, perfettamente realizzata nei rapporti tra la buca ed il palco, le cui distanze venivano annullate anche grazie alla prestazione del Coro del Teatro, come sempre mirabilmente preparato da Fabrizio Cassi, risultata semplicemente fantastica, con una resa in molti passaggi davvero impressionante.

Il cast della Prima ha dimostrato una sintonia perfetta ed un livello qualitativo di assoluto pregio, raccogliendo ovazioni a scena aperta. Norina, la protagonista femminile, trovava una sublime interprete in Veronica Granatiero, soprano dalla voce squillante con un’estensione da brividi, molto disinvolta, brillante, duttile e agile anche scenicamente, ma ottimi risultavano anche il Don Pasquale di Carlo Lepore, misurato in ogni sua esternazione, ma sempre capace di coinvolgere il pubblico facendogli percepire il tormento del suo personaggio, l’Ernesto di Levy Sekgapane, vocalità nitida, leggera e tecnicamente perfetta, con un’estensione davvero ampia, svettante soprattutto sulle tessiture acutissime, ma anche dolce all’occorrenza, il Malatesta di Giorgio Caoduro, voce bassa e intensa unita ad una gestualità da consumato attore, cui si aggiungeva il Notaro di David Cervera.

Successo vivissimo e meritatissimo per tutti. Si replica ancora il 22, 23 e 24 novembre.

Pasquale Attolico
foto di Clarissa Lapolla photography

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