“Il mio impegno con l’Orchestra Cherubini non è teso solo a voler aiutare questi giovani diplomati a trovare un lavoro, ma soprattutto a contribuire a creare cultura, perché tramite una migliore conoscenza della musica italiana i giovani possano diventare una classe politica migliore. Orchestre, conservatori e teatri, sempre in numero inferiore nelle regioni meridionali d’Italia, devono contribuire a diffondere cultura, unico antidoto alla violenza, ai dissidi, alle guerre.” (Riccardo Muti)
Se questi che ci è dato in sorte di vivere non fossero tempi barbari, di certo la Musica sarebbe venerata come un elemento sacro e i luoghi in cui si ascolta sarebbero rispettati al pari di templi. In tempi diversi dai poveri nostri, si potrebbe persino pensare di insegnare approfonditamente la musica nelle scuole, che, se pure non dovesse servire – e non lo crediamo – a coltivare nuovi talenti, magari potrebbe evitare al pubblico dei concerti di fare ancora figuracce, applaudendo nel bel mezzo di una sinfonia. Se questi fossero i tempi che da sempre abbiamo sognato, e che probabilmente continueremo a sognare in eterno, il Maestro Riccardo Muti non avrebbe bisogno di lanciare pietre dall’alto del suo irraggiungibile podio, come già fece nel febbraio 1996, lasciando un’affollatissima Basilica di San Nicola – compreso chi vi scrive – assolutamente senza fiato, a seguito della violenta reprimenda per la mancata immediata rinascita e, poi, la troppo lenta ricostruzione del Petruzzelli, che lui – e non solo – riteneva una vera vergogna. Oggi il Teatro Petruzzelli è tornato ai suoi fasti ed il Maestro Muti non manca mai all’appuntamento con il Politeama tanto amato, come è accaduto per ben due sere sold out nel mese di luglio inserite nel cartellone della Stagione Concertistica 2022 della Fondazione Petruzzelli, grazie a quella che può, a ragione, considerarsi una vera festa, come testimoniato dal pubblico che ha affollato ed assiepato ogni angolo del Teatro.
Del resto, il successo dell’evento era, nonostante il gran caldo, annunciato, non solo per la presenza a Bari del Maestro e della sua magnifica creatura, l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, che annovera esclusivamente musicisti italiani al di sotto dei trent’anni che possono restare nell’ensemble per soli tre anni, ma anche per un programma magnifico, con l’apertura affidata alla Sinfonia Roma in Do maggiore op.37 di Georges Bizet, per poi proseguire con Il lago incantato, poema sinfonico op.62 di Anatolij Ljadov e concludere con Les Préludes, poema sinfonico n.3 da Alphonse de Lamartine, S 97 di Franz Liszt.
Mi sia concesso di leggere a ritroso le pagine musicali proposte.
In una delle “Méditations poetiques” di Alphonse de Lamartine si legge: “Non è forse la nostra vita una serie di Preludi a quel canto di cui la morte intona la prima nota solenne? Ma qual è la vita le cui voluttà di gioia non sono interrotte da qualche uragano che, con soffio mortale, dissipa le sue belle illusioni? Tuttavia l’uomo non sì rassegna a lungo a gustare il tepore benefico che all’inizio lo aveva allettato in seno alla natura, e quando ‘la tromba ha dato il segnale d’allarme’ egli corre all’avamposto pericoloso quale che sia la guerra che lo chiama, per ritrovare nella lotta la piena coscienza di se stesso e il completo possesso delle sue forze”; era questo, con tutta probabilità, il pensiero che aveva catturato Franz Liszt durante la composizione del suo poema sinfonico Les Préludes, opera di non facile esecuzione, compendiando in un unico movimento ben tredici diversi episodi che muovono tutti da uno stesso nucleo tematico, costantemente variato, che si sviluppano partendo da un clima misterioso e di estrema tensione, sino a giungere, dopo continue variazioni, a dipingere un caleidoscopico arazzo musicale. L’Orchestra Cherubini svolge alla perfezione l’arduo compito affidatole, offrendone una lettura di elevatissimo pregio, emozionante, toccante, finanche ipnotica, con una formazione rinforzata che fa ‘sentire’ tutte le più piccole emozioni nascoste nel pentagramma.
Anatolij Ljadov volle sottotitolare “Scena da favola” il suo poema sinfonico “Il lago incantato”, non solo con lo scopo di fare chiaro riferimento allo scorcio di natura che lo aveva affascinato sul grande lago Ilmen, disabitato, apparentemente immobile e misterioso, ma soprattutto con l’intenzione di dichiarare immediatamente i propri intenti riguardo le sensazioni di serenità mistica che con la sua opera intendeva trasmettere, evocando, ad esempio, il dolce movimento delle acque con suggestivi accordi di arpa e celesta, e lo scintillio delle stelle con gli arabeschi gentili del flauto. Anche se il brano si presenta innegabilmente ostico, tanto all’esecuzione quanto, e soprattutto, all’ascolto, non possiamo non plaudire non solo alla volontà del Maestro Muti di inserirlo in programma, proprio in virtù di quell’incessante desiderio di “fare cultura” di cui si è detto in apertura d’articolo, ma anche alla mirabile interpretazione che l’Orchestra è riuscita a dare del tema musicale, sottolineando l’affascinante quanto evanescente intreccio della strumentazione, delle figurazioni e delle trasformazioni armoniche.
Ma per incontrare l’incontestabile capolavoro della serata occorre risalire al principio del concerto, a quella sublime, inarrivabile, perfetta esecuzione di “Roma – Sinfonia in do maggiore op.37” di Georges Bizet. Grazie alla somma maestria di Muti e della sua Orchestra abbiamo finalmente potuto ascoltare la famosa pagina musicale comprendendo appieno quello che lo stesso compositore aveva in cuore di creare allorquando scrisse a sua madre “ho in mente una Sinfonia che vorrei intitolare Roma, Firenze, Venezia e Napoli. È studiata alla perfezione: Venezia sarà l’Andante, Roma il primo movimento, Firenze lo Scherzo e Napoli in Finale. È un’idea nuova, direi”. Dirò di più: l’interpretazione mi ha talmente affascinato e rapito che alla domanda, su cui i critici si arrovellano da tempo, se Bizet fosse riuscito a dare attuazione a quella sua idea di produrre musica pura, mi pare di poter rispondere positivamente solo ora, all’indomani dell’ascolto della “versione di Muti”, essendo riuscito lo stesso a cogliere – finalmente – ogni impercettibile sfumatura di quella che Bizet chiamava ( probabilmente anche perché lo tenne impegnato, a fasi alterne, per ben undici anni) “la mia sinfonia”, a partire da quel tema iniziale dell’Andante tranquillo, “Une chasse dans la forêt d’Ostie”, così vicino a Weber e Gounod, per poi proseguire nell’Allegro Agitato e, poi, nell’Allegretto Vivo, movimento in cui l’Orchestra tocca vette inesplorate, anche se è il tema successivo, l’Andante Molto “Une procession”, ad impegnare lapalissianamente l’ensemble più a fondo degli altri, sino a giungere all’esplosione del finale, l’Allegro Vivacissimo di “Carnaval” che, grazie ad un’orchestrazione brillante, maestosa, stimolante, eccellente, attraversa ed inebria il foltissimo pubblico del Petruzzelli, al punto da far tornare in mente le parole di un affascinato Friedrich Nietzsche che, commentando l’arte di Bizet, non poteva esimersi dall’affermare “io invidio a Bizet il coraggio di questa sua sensibilità eccezionale, che prima di adesso non aveva trovato mezzo per esprimersi nella musica colta d’Europa; il coraggio di questa sensibilità meridionale, brunita, arsa dal sole. Si sono mai uditi sulla scena accenti più tragici, più dolorosi? E come sono ottenuti? Senza smorfie, senza contraffazioni di alcun genere, in piena libertà dalle bugie del “grande stile”. Io mi sento diventar migliore quando questo Bizet mi parla. Il mio udito si sprofonda in quella musica; ne percepisco le origini; mi par di assistere alla sua nascita e tremo davanti ai pericoli che ci accompagnano a qualunque audacia; mi trovo incantato dai felici ritrovamenti che Bizet stesso ignora.”
Quel che è certo è che, per tutto il concerto, compreso lo splendido bis dell’“Intermezzo” dalla Fedora di Umberto Giordano – un attimo tanto fuggente quanto divino, una carezza, un dono che non dimenticheremo facilmente – la musica scorreva fluida, riempiva le orecchie, le tempie, le vene, il cuore, l’anima, in un movimento incessante in cui era il corpo a venirne colpito prima ancora dei sensi, in un crescendo di emozioni, difficilmente riportabili su carta, che mi rendevano, ancora una volta, eternamente debitore, unitamente a tutta la platea del Petruzzelli, della bacchetta del Maestro, tornato a dirigere la sua Orchestra nel suo Teatro: monumento al servizio di un altro monumento, storia nella storia, leggenda nella leggenda. Perché io mi sento diventar migliore quando questo Muti mi parla.
Pasquale Attolico
Foto di Clarissa Lapolla photography