“La storia dell’umanità è quasi totalmente una narrazione di progetti falliti e speranze deluse.” (Samuel Johnson)
“La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto al momento giusto.” (Elias Canetti)
Le parole sono pietre. Ce ne sono alcune che irrompono nella nostra mente e nella nostra coscienza per non abbandonarle più. Ad esempio, io, nonostante il lungo lasso di tempo ormai trascorso, ho perfettamente impresso nella memoria dove mi trovavo e cosa stavo facendo ogniqualvolta, dal 16 marzo 1978 in poi, mi (rag)giungeva una notizia sul rapimento, la prigionia e, infine, l’assassinio e il ritrovamento del corpo del Professore (è questo il titolo che, per personalissime ragioni, preferisco riconoscergli) Aldo Moro; in particolare, è la telefonata del 9 maggio, l’ultima, quella con cui le Brigate Rosse comunicarono che in via Caetani si trovava il corpo senza vita del Presidente, che continua ancora oggi a colpirmi emotivamente, al punto da ricordare in modo preciso le parole del brigatista e la straziante disperazione del suo interlocutore, il figlio del professor Franco Tritto, amico della famiglia Moro. Dell’analisi di quelle parole si occupò anche Leonardo Sciascia nel suo imprescindibile “L’affaire Moro”, il libro del ’78 in cui tracciò, con il suo innato rigore intellettuale, la figura dello statista pugliese “semplicemente” analizzandone il cambiamento nel linguaggio degli scritti prima e durante la prigionia, descrivendo un viaggio nel mondo di Moro che prendeva spunto da un famoso scritto di Pier Paolo Pasolini, passato alla storia come “l’articolo delle lucciole”, ed ancor più dalla drammatica frase – che abbiamo riportato in apertura d’articolo – estratta da “La provincia dell’uomo” di Elias Canetti.
Oggi, alla vigilia dello scoccare dei quarantacinque anni da quell’omicidio, questi macigni, questi meteoriti, continuano a pesare ed incombere sulle nostre teste e, nei giorni scorsi, piovevano dal palco del Teatro Piccinni di Bari sul pubblico della annuale cittadina Stagione di Prosa grazie a “Con il vostro irridente silenzio – Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro”, lo straordinario “esperimento teatrale” con cui Fabrizio Gifuni, che aveva già magistralmente interpretato Moro nel film “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana, su invito del nostro Nicola Lagioia inaugurò il Salone del Libro di Torino nel 2018, scegliendo di non creare un nuovo testo, bensì di lavorare soltanto sulle parole che Moro aveva scritto in quei rapidissimi eppure interminabili cinquantacinque giorni di prigionia, una produzione letteraria di assoluto pregio non solo, come è chiaro che fosse, dal punto di vista sociale, ma anche per la limpidezza e l’eccellenza del linguaggio che sono sempre stati una caratteristica della sublime penna di Moro.
Eppure, in un’operazione di sistematico criminale depistaggio, messa in atto da – chissà quali? – poteri occulti, che solo nel dicembre 2017 la Commissione parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni si deciderà a sdoganare tacciando di falsità la precedente indegna versione dei fatti, quegli scritti furono a lungo secretati, osteggiati, nascosti, criptati, e prima ancora letti e criticati, giudicati come non appartenenti a Moro o scritti sotto dettatura delle BR, per cui si coniò l’espressione “Moro non è Moro”, altra frase terribile che fa rabbrividire ancora oggi, quasi ad accentuare il confronto tra quello che era e quello che non era più, evitando di riconoscere il leader politico nell’uomo che, nelle mani dei terroristi, supplicava i suoi compagni di partito di considerare l’opzione di uno scambio tra prigionieri, prima di esporsi in un inedito e tremendo j’accuse (“con il vostro irridente silenzio avete offeso la mia persona, e la mia famiglia, con l’assoluta mancanza di decisioni legali degli organi di Partito avete menomato la democrazia ch’è la nostra legge”); la preghiera di un uomo che rischia la vita e non vuole morire e la successiva disperazione quando tutto è perduto venivano giudicate al pari del gesto di un uomo nuovo e provato dalla prigionia o di un fantoccio che ripete pedissequamente le parole dei suoi carcerieri o, peggio, di chi si è votato alla stessa rivolta contro lo Stato, magari in preda ai sintomi di una più che paradossale Sindrome di Stoccolma. La mistificazione raggiunse il culmine quando, in occasione della pubblicazione della lettera del 4 aprile diretta al segretario della Democrazia Cristiana, Benigno Zaccagnini, tutte le più importanti testate italiane si premunirono di premettere che “come possono comprendere i lettori, il testo della lettera a firma Aldo Moro indirizzata all’onorevole Zaccagnini, rivela ancora una volta le condizioni di assoluta coercizione nella quale simili documenti vengono scritti e conferma che anche questa lettera non è moralmente a lui ascrivibile”, senza preoccuparsi del fatto che Moro in prigionia avesse certamente la possibilità di leggere i giornali (infatti, il 28 aprile Moro risponderà: “è vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d’animo lieto, ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Perché non mi credete? Chi vi suggerisce di non credermi? Amici, non vi lasciate ingannare. Vi supplico in nome di Dio.”) e, quindi, della ulteriore angoscia che queste parole avrebbero procurato nel suo animo martoriato.
Un’angoscia, uno sgomento, un’afflizione che, nonostante il lungo preambolo con cui Gifuni – non ancora ‘trasformatosi’ in Moro – prende per mano il pubblico dirigendolo verso quello che accadrà sul palco, trafiggono e catturano lo spettatore per tutti gli oltre cento imprescindibili, indispensabili, necessari minuti della pièce, trascinandolo in un vortice doloroso, asfissiante, soffocante, distruttivo, che inghiotte ogni cosa si frapponga al raggiungimento della verità, da cui lo stesso attore è visibilmente incapace di uscire al termine dello spettacolo, prima di accogliere il pubblico in un ideale abbraccio. Ed è proprio su questa verità, su quell’“atomo di verità” che Moro anelava in prigionia (“datemi da una parte un milione di voti e toglietemi dall’altra un atomo di verità, e io sarò perdente!”) che si concentra l’analisi di “Con il vostro irridente silenzio”, senza altra reinterpretazione che non sia quella emotiva derivante dalla lettura stessa, scelta che fa della performance un’opera essenziale, in ogni senso.
Un tavolo e una sedia: non è più un’aula universitaria che accoglie Gifuni / Moro, bensì una angusta stanza, una cella senza altro conforto della scrittura, un non-luogo in cui le parole riaffiorano, rimbalzano, si incontrano e si scontrano; i fogli sparsi per terra non sono solo riproduzione degli scritti del Presidente, ma anche la rappresentazione del cammino di un’anima verso la disperazione, verso la propria morte, verso il proprio inferno. Ma prima ancora del tremendo significato delle parole, è – come ammetterà lo stesso attore, che sceglie di leggere una parte del carteggio di 419 fogli, traendola dalle 90 lettere, riportate in rigoroso ordine cronologico, e dalle 245 pagine del Memoriale – la magnifica scrittura ad emergere, in cui il Professore fa ancora sfoggio di tutta la sua cultura umanista, con una prosa aulica sospesa fra le citazioni bibliche e l’erudizione ciceroniana; attorno a quelle parole, ad ognuna di quelle parole ed al loro indubbio rigore filologico, Gifuni, che conferma l’altissima cifra stilistica della sua Arte, accompagnandosi con una gestualità scarna, secca, anche ripetitiva, spalanca orizzonti, costruisce cattedrali, lotta con invincibili mostri, ricama preziosi e raffinati macramè, mescola la rabbia con la rassegnazione, la compassione con la passione, l’incredulità con l’illuminazione, in un crescendo senza soste e respiro – letteralmente – che sembra trovare nella famosa invettiva contro Andreotti il suo culmine e, insieme, il suo baratro, raggiungendo un livello di indagine negli abissi delle oscurità dell’animo umano così tremenda da dover distogliere lo sguardo.
Se “chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”, allora quarantaquattro o quarantacinque anni valgono quanto un solo minuto, mentre un solo attimo può bastare a far mutare tutto, per sempre: ne deriva che, pur continuando ad interrogarmi sul significato e, soprattutto, sul risultato che un’operazione di tale elevatissima portata possa avere in un Paese come il nostro e, vieppiù, in questi tempi di inquinamento, sfruttamento ed ottenebramento barbarico, anche dell’arte, non credo vi possa essere chi non creda alla missione di decodificazione della nostra inquietante società instaurata dalla performance di Gifuni, in cui è il pensiero stesso a prendere forma, a diventare denuncia e prostrazione, rabbia e sconforto, coscienza ed afflizione, speranza e disillusione; chi, tra il foltissimo pubblico del Teatro Piccinni (sold out con – per fortuna – tantissime attentissime presenze giovanili), si aspettava un testo che fosse esclusivamente un datato gioco di memoria, si è ritrovato a fare i conti con concetti di disarmante attualità, con una visione politica – nell’accezione più alta del termine – resa senza usare alcun filtro, senza sotterfugi che possano indorare l’amara pillola, lasciando che il sasso lanciato in platea possa fare tutto il rumore possibile e che, da esso, si propaghi un’onda di incalcolabili dimensioni che devasti le coscienze ben oltre la durata dello spettacolo. Un teatro cui Gifuni ci aveva già abituati e di cui mi sono sempre detto incondizionato sostenitore (penso ai precedenti lavori su Pasolini, Gadda, Pavese, Testori), ma che in questo “Con il vostro irridente silenzio” raggiunge un momento di rara forza e bellezza, in cui la autorevole voce e l’impareggiabile presenza scenica dell’attore lasciano risuonare in modo singolare le parole di Moro, quasi a farne il talismano di una possibile redenzione civile, quella stessa che, a mio modesto parere, potrebbe essere davvero vicina se tutti noi, abbandonando la nostra innata natura gattopardesca, riuscissimo a lanciare lontano il nostro pesante, ingombrante, devastante sasso, nell’estremo tentativo di “capire, con i nostri piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo.”
Pasquale Attolico