“La musica può nominare l’innominabile e comunicare l’inconoscibile.” (Leonard Bernstein)
Occorre immaginarselo: Giuseppe Verdi, giovane musicista di ventinove anni che aveva da poco dovuto affrontare l’umiliazione dell’insuccesso con la sua ultima opera “Un giorno di regno”, torna a tarda sera nella sua abitazione e si ritrova nelle tasche dell’ampio soprabito il manoscritto del Nabucco che Bartolomeo Merelli, impresario della Scala, vi aveva fatto scivolare; il libretto si apre sulla pagina del quadro degli Ebrei in schiavitù che intonano il “Va’, pensiero, sull’ali dorate”; da profondo conoscitore delle Sacre Scritture, comprende di trovarsi di fronte al Salmo 137, il “Super flumina Babylonis”, in cui si incarna il lamento dell’esule che ricorda la patria lontana, e non riesce a chiudere occhio sino a quando la musica non è composta.
Certo, non è possibile non supporre che sia un aneddoto inventato ad arte per dare impulso alla leggenda del Cigno di Busseto, ma, in ogni caso, credo si possa affermare, senza tema di smentita, che quella pagina di musica giunga comunque da lontano, da molto lontano, probabilmente suggerita da altre e ben più alte vette all’orecchio del compositore, che seppe decodificarla e donarla alla nostra povera umanità per l’eternità; altrimenti non si spiegherebbero le attanaglianti emozioni che il pubblico di tutto il mondo – e quello italiano soprattutto – prova ad ogni nuovo ascolto del coro del finale del terzo atto, le stesse che hanno fatto vibrare i cuori che affollavano il Teatro Petruzzelli di Bari nel giorno della Prima di questa edizione del “Nabucco”, secondo titolo della Stagione 2021 della Fondazione Petruzzelli.
In una serata che andrà ricordata negli annali del nostro Politeama, finalmente tornato a capienza totale, sono ancora una volta risuonate le immortali note della terza opera di Verdi, un capolavoro d’efficacia narrativa composto su libretto di Temistocle Solera, il quale trovò la prima fonte di ispirazione senza dubbio nella Bibbia, con riferimenti al citato Salmo 137, lo stesso che influenzerà Salvatore Quasimodo per la sua “Alle fronde dei salici”, ed al regno di Giuda occupato da parte del re babilonese Nabucodonosor nel 587-586 a.C., che saccheggiò il Tempio di Gerusalemme e fece deportare i vinti in Babilonia, mentre per la creazione del triangolo amoroso ante litteram formato da Ismaele, Abigaille e Fenena si rifece con più probabilità al dramma francese Nabuchodonosor di Auguste Anicet-Bourgeois e Francis Cornu.
Quel che accadde sin dalla prima rappresentazione alla Scala il 9 marzo del 1842 è storia e, con tutta probabilità, supera gli stessi intendimenti degli artefici di questa opera d’arte universalmente riconosciuta: non solo il successo del coro del terzo atto fu di tale portata da costringere a concederne il bis, ma – come è noto – la sottomissione degli Ebrei e il loro canto nostalgico furono interpretati come simbolo della condizione degli italiani soggetti al dominio austriaco, decretando il successo dell’intera Opera – che nello stesso anno ebbe solo alla Scala ben settantacinque repliche – e trasformando quel coro stesso in uno degli inni dei moti risorgimentali, circostanza che causò qualche problema con la censura austriaca all’incolpevole Verdi che, quasi certamente, non aveva pensato a fomentare lo spirito rivoluzionario che serpeggiava nel nord Italia, non essendo dotato di uno spirito con particolari velleità patriottiche o sobillatrici, ma esclusivamente a quell’unico desiderio, fortissimo e comprensibile, di affermarsi artisticamente, operazione che finalmente gli riuscì perfettamente, per sua stessa ammissione: “Con quest’opera si può dire veramente che ebbe principio la mia carriera artistica; e se dovetti lottare contro tante contrarietà, è certo però che il Nabucco nacque sotto una stella favorevole. Dal Nabucco in poi non ho avuto, si può dire, un’ora di quiete. Sedici anni di galera!”
Possiamo quindi affermare che, ancora una volta, era stata la musica ad infiammare i cuori, a creare un indissolubile legame con le sorti della stirpe italica, che in quel popolo esule, schiavo e perdente si rispecchiava.
E oggi? Ora che lo sturm und drang patriottico si è definitivamente perso – anche se, probabilmente, mai come in questo momento ci sarebbe bisogno di un risveglio delle nostre sopite coscienze -, come può l’opera verdiana godere di una rilettura che sappia attualizzarla pur rispettandone l’accezione, i significati che intere generazioni le hanno attribuito, finanche identificandovisi? A questa domanda ci pare dia risposta precisa e compiuta questa regia di Leo Muscato, ripresa da Alessandra De Angelis, allestita per il Teatro Lirico di Cagliari, che trasporta la storia in una dimensione senza tempo, indefinita, quasi astratta, così lontana eppure così vicina, in cui il nemico non è più l’avverso popolo, usurpatore o oppresso, ma qualcosa di indistinto e vago, oscuro sin dalla sua genesi, che pare incombere su tutti gli esseri coinvolti in una lotta senza confini, senza bandiera, che riguarda l’intera umanità. Quando, all’apertura del sipario dopo la splendida ouverture, abbiamo scoperto il popolo ebreo costretto tra quattro mura – una sorta di via di mezzo tra il Muro del Pianto ed un bunker antiatomico – ed integralmente imbavagliato da mascherine chirurgiche, ci abbiamo messo un attimo a comprendere di trovarci al cospetto di una ricostruzione del recente lockdown cui siamo stati tutti costretti dal Covid19, immagine di un pericolo condiviso da ogni uomo, come potevamo verificare al sopraggiungere dei persecutori babilonesi, anch’essi bardati dalle odiate ma essenziali protezioni.
Per Muscato e De Angelis, quindi, l’infinita contesa tra i popoli che, attraverso i secoli, ha insanguinato la Terra con guerre a tutt’oggi irrisolte, soprattutto in virtù di un inquietante quanto inquieto antagonismo religioso, deve, come peraltro auspicato da Verdi stesso, lasciare il posto ad una fratellanza tra i vecchi avversari; ma se nell’Opera questo accadeva per timore di un Dio irascibile e vendicativo, che punisce Nabucco sino alla sua redenzione, qui, sembrano suggerire Muscato/De Angelis, il pericoloso nemico è altrove, si è insinuato nell’aria, nel corpo, nell’esistenza stessa degli esseri umani, e non potrà essere sconfitto se non con l’apporto di tutti. Sovrapporre la storia antica ai nuovi scenari pandemici è stato certamente il definitivo colpo di genio di una regia che si fa comunque molto apprezzare, esaltando le innumerevoli scene d’insieme con sontuosi e grandi quadri, una serie di magnifici dipinti in tre dimensioni, di fantastici fermoimmagine che, pur togliendo dinamicità alla scena, finendo per conferirle forse eccessiva staticità ed inerzia, hanno una potenza visiva devastante ed ipnotica, anche – e, forse, soprattutto – grazie alle monumentalmente evocative quanto sublimi scene in chiaroscuro di Tiziano Santi (che varrebbero da sole la visione dello spettacolo), ornate di magnifiche trasparenze ed incombenti segni grafici che ricordano sia le scritture semitiche che gli ideogrammi kanji, all’altrettanto eccelso disegno luci di Alessandro Verazzi e ai suggestivi costumi di Silvia Aymonimo.
La incontestata perfezione della musica è stata senza dubbio esaltata dalla ispirata passionalità della bacchetta di Renato Palumbo e dalla più che ottima prova dell’Orchestra della Fondazione Petruzzelli, a cui sarebbe bastata la sola perfetta esecuzione della citata Sinfonia d’apertura che ci ha regalato per farne la vera vincitrice della serata, grazie ad una performance magistrale nella sua integrità, attenta, viva ed incalzante, ricca di pathos, assieme – ça va sans dire – all’eccellente esibizione del Coro del Teatro, come sempre magistralmente istruito da Fabrizio Cassi, che non si è fatto trovare impreparato nell’affrontare l’impervia prova, rivendicando il proprio ruolo fondamentale in una partitura celeberrima e amata ma, proprio per questo, irta di difficoltà come poche, restituendoci tutti i turbamenti celati nella pagina pentagrammata.
Nell’ottimo cast, emergono l’Abigaille (in definitiva, la vera protagonista della storia) di Maria Josè Siri, potente e sicura, dotata di una espressività istrionica, irruente eppure struggente, finanche malinconica all’occorrenza, particolarmente felice – sino a toccare la perfezione – nei toni alti, il Nabucco di George Petean, intenso e profondo tanto per vocalità quanto per presenza scenica, coinvolgente sino alle lacrime nella magnifica preghiera del quarto atto “Dio, degli Ebrei, perdono“, lo Zaccaria di Riccardo Zanellato, che ha donato al suo personaggio la giusta imponenza austera anche per merito di un timbro vocale pieno e solenne. Bravissima ed emozionante Nino Surguladze nell’aria di Fenena, mentre Giulio Pelligra è un valido Ismaele, come pure Marta Calcaterra (Anna, sorella di Zaccaria), Andrea Comelli (Gran Sacerdote di Belo) e Saverio Pugliese (Abdallo) nei loro rispettivi ruoli.
Applausi per tutti.
Si replica sino a mercoledì 27 ottobre: non lasciatevi sfuggire l’occasione.
Pasquale Attolico
ph Clarissa Lapolla photography